Memorie da Stromboli
Benevento
 
Un aquilone sopra il vulcano
Massimo Bignardi
Non so quanto possa essere attuale l’aforisma di Henry James che affida al critico il compito di «mettere a raffronto un’opera con il livello di verità concreta che essa contiene…». Mi chiedo anzitutto quale sia la necessità di verità e di ‘messa’ a confronto, in una realtà sociale, come la nostra, ove la comunicazione tra gli esseri è organizzata dalla sempre più estrema velocità dei processori, ove i “fotogrammi” di sequenze televisive, dunque istanti di realtà, si sostituiscono rapidamente ad ogni verità. 
La necessità si pone però, questo il suggerimento da accogliere, quando a confronto non vi sono solo immagini, per esse anche quelle suggestionate dalla lettura, bensì le relazioni emotive che nascono e lievitano da impercettibili trame, da occasioni impreviste. 
Il raffronto, in questa occasione, è con le annotazioni lasciate dallo sguardo su piccoli fogli di carta, con le pareti che li ospiteranno, con uno spazio che farà da ‘scena’, densa di lapilli, suoni, insomma con il complesso registro che sottende l’installazione ideata da Enzo Navarra per le minime geometrie dell’Arte Studio-Gallery di Benevento. Un’occasione di raffronto che sa di mistero, lo stesso che anima – non organizza – la molteplicità della nostra esistenza.
Prima di incontrare i luoghi ove Navarra ha soggiornato nei giorni caldi della strascorsa estate, ho avuto la possibilità di sfogliare, uno dopo l’altro, i piccoli fogli di carta che, nei registri dell’immaginifico, relazionano di tali luoghi. 
Sullo sfondo c’è lo Stromboli, ovvero il vulcano e la sua aria di antica divinità greca; la spiaggia di pietre e ciottoli neri di Ficogrande; poi il giardino l’Aquilone, per Enzo una sorta di Giverny arabe, messo su e curato da Francesco e dai suoi collaboratori nel pianoro che porta alle pendici della montagna fumante. È un rettangolo appartato dai rumori della strada che attraversa il centro, governato dal silenzio e dai profumi di fior d’arancio, erba cedro, rosmarino, finocchietto, basilico, gelsomino... Un silenzio interrotto di tanto in tanto dal “boom!”, “boom!”, “boom!”, il borbottio futurista dello Stromboli che cadenza il silenzio del giardino e il sornione tempo dell’isola, al quale fanno eco le grida di Pippo, pescivendolo ambulante della comunità estiva: «Fresco!», «Frescooo!», «Freeescoooo!», elencando l’offerta del giorno «pisci spada, vongole con le corna, tonno, capponcello…».
I fogli di carta fatta a mano, ruvidi e ricchi di cotone, assorbenti pronti a trattenere ogni sbavatura di colore e di acqua, dichiarano il desiderio di concorrere, con la sabbia, la pomice polverizzata e la cenere, nel dare materie e spessori all’immagine. Dentro, nel rettangolo bianco, segni obliqui trascrivono il gesto della mano mentre descrive la sciara che scivola verso il mare, portando con se lapilli infuocati, pietre che vanno ad arricchire lo specchio azzurro che incornicia il vulcano.
Indubbiamente la pittura gioca il suo ruolo, con la capacità di evocare i luoghi toccando rapidamente la retina e l’emozione, suggerendo colori di atmosfere che difficilmente Enzo fa sfuggire; lo fa senza indugiare sulla forma narrativa, a volte distraendosi dalla sintassi, ossia affiancando colori di diversa luminosità, accentuando il carattere cromatico del rosso a discapito del viola, delle sfumature del grigio che disperde nel bianco del fondo. In altri casi insiste proprio su di esse aggiungendo sabbia nera, poi grumi collosi di cenere, creando una superficie porosa che spalma sulla superficie trattenendo tutti gli umori, le ansie di quella precarietà che è propria di chi vive, direbbe Malcom Lowry, sotto il vulcano. Se la terra di lapilli e cenere, le strade di lava, i muretti a secco dai quali svettano corone di fichidindia, hanno prestato il colore e il corpo a questi fogli, il minaccioso borbottio ne ha suggerito le coordinate per l’installazione. Essa definisce uno spazio nel quale l’artista non mette in scena la sciara, bensì cerca di ricreare l’attesa, poi il boato e le immagini che esso prefigura. Lo spazio si fa dunque attesa dello spirito, occasione di raffronto con il proprio vissuto. 
Alla vista dei luoghi e del giardino, potendo “respirare” la quiete e le sfumature malva come le trascrive Navarra, mi sono sentito indosso, per un istante, i panni del personaggio del romanzo di Lowry: una sensazione di liberazione e, al tempo stesso di realtà e di angoscia. In essa vi ho trovato quello che James chiama «verità concreta», insomma una parte di vissuto tra l’immaginazione e l’autobiografia.
Ascolta la colonna sonora della mostra creata da Federico Bianco: